Oggi la sigla ESG, in America, non è più soltanto l’acronimo, misterioso per anni al di fuori del circuito degli esperti del mondo finanziario e degli investimenti, che sta per Enviroment (la difesa dell’ambiente), Social (l’attenzione alle problematiche sociali) e Governance (regole per la trasparenza e la correttezza nella gestione delle aziende). ESG è diventato il centro della discordia più accesa nel clima della polarizzazione politica che divide la sinistra e la destra, i liberale e i conservatori. I primi sono i paladini, i secondi i dichiarati avversari della nuova parola d’ordine, assurta a verbo woke per eccellenza. E woke, ormai l’abbiamo imparato, è la versione laica degli “unti del Signore” di una volta, quelli che hanno visto la luce e sanno sempre chi e che cosa sia nel giusto, e chi no.
Chiamare l’ESG un nuovo terreno di scontro nella sempiterna “culture war”, o Guerra di Cultura, come pure fa qualche commentatore che ammira la Greta svedese, è fuorviante. Non dà l’idea esatta di che cosa ci sia davvero in palio. Intanto, ESG sì ed ESG no non è una disfida nobile. Non è, per capirci, lo scontro di religione che ha diviso l’America dopo la sentenza dell’anno scorso della Corte Suprema che aveva cancellato il diritto costituzionale all’aborto. Quella sì che era, e resta, una vera battaglia per ideali alti: i religiosi pro vita che difendono il nascituro concepito, contro chi affida alla donna gravida la scelta di diventare o meno mamma. [...]
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