Tra gli aspetti ideologicamente più scomodi di questo regime è che esso effettua salvataggi in modi discriminanti. Banche centrali e governi si sbarazzano dei meccanismi di selezione capitalistica basati sul libero gioco del mercato per sostituirli con criteri di regolazione politica in senso stretto, in apparenza neutrali ma a ben vedere discrezionali. Le autorità decidono di volta in volta quali titoli comprare e quali no, chi salvare dal fallimento e chi no, quali fusioni e acquisizioni favorire e quali no, e così regolano le bancarotte e i relativi processi di centralizzazione dei capitali. Un capitalismo che in un certo senso pianifica per salvarsi dalla sua stessa anarchia, potremmo dire.
Gli apologeti del libero mercato tentano allora di uscire dall’imbarazzo aggrappandosi a una vecchia tesi di Walter Bagehot, secondo cui al sopraggiungere delle crisi finanziarie le autorità dovrebbero salvare solo i soggetti temporaneamente “illiquidi” ma solvibili nel lungo periodo, mentre dovrebbero lasciare i soggetti effettivamente “insolventi” al loro destino. Sembra la chiave giusta per ridare un minimo di dignità al sistema. Non a caso, le dotte citazioni del precetto di Bagehot in questi giorni si sprecano. In effetti, se si potesse concretamente applicare questa regola, la macchia del capitalismo che governa politicamente i fallimenti potrebbe essere almeno in parte ripulita. C’è tuttavia un piccolo problema: un criterio scientificamente comprovato per distinguere gli “illiquidi” dagli “insolventi” non esiste. La moderna analisi economica mostra che il più delle volte gli uni si intrecciano irrimediabilmente agli altri, come fossero teste di un’unica Idra. [...]
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