Miracolo a rovescio, di Trump. Nel dibattito televisivo con Kamala Harris del 10 settembre è riuscito in una impresa non da poco. Assistere dimesso alla performance di una vicepresidente in carica, brillante abbastanza da infliggergli una sconfitta non equivoca: secondo i sondaggi a caldo del campione di telespettatori della CNN, il 73% ha detto che la Democratica ha vinto, e solo il 37% che ha vinto Trump. Quasi l’esatto opposto dell’esito della prestazione del 27 giugno di Donald contro il decrepito Joe, che non sopravvisse alla umiliazione. Eppure Harris, nei quasi quattro anni del suo mandato, aveva avuto prima della nomination un ranking di approvazione storicamente molto basso, e sotto il livello dello stesso impopolare presidente Biden.
Ma non è stata soltanto, lunedì in Pennsylvania, una lezione di dialettica, di mera capacità di gestire la serata sul piano del linguaggio del corpo. Lei, articolata lessicalmente e preparatissima nel ripetere i triti passaggi critici imparati a memoria, e nel modulare le frasi con sorrisi e ammiccamenti, limitando a qualche singola smorfia un certo nervosismo represso che si è via via sciolto nella sicurezza crescente, spavalda. Lui, cupo dall’inizio alla fine, evidentemente istruito a non lasciarsi andare mai a tirate offensive verso una signora, per di più di colore: il risultato è stato una prestazione dimessa, completamente priva del sale dell’ispirazione che un leader deve saper infondere. Sempre, ma soprattutto nel primo e (forse) unico confronto pubblico con l’avversario. [...]
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