“Senza acciaio non c’è industria”, era solito dire Oscar Sinigaglia, padre e deus ex machina della Finsider, antenata dell’Ilva che governò la rinascita industriale siderurgica italiana nel secondo dopoguerra. Un motto che vale anche oggi per un Paese ad alta vocazione manifatturiera come l’Italia e che è emerso come cogente non solo per quanto riguarda il caso del polo tarantino ma anche per il recente dossier di Acciaierie Valbruna, su cui il governo Meloni si prepara a esercitare il golden power. Oggi, industria significa anche sicurezza nazionale.
Non va ignorato il fatto che l’esecutivo, nella persona del ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, abbia prospettato l’uso dei poteri speciali per condizionare l’esito finale della gara pubblica con cui Acciaierie Valbruna, con sede in provincia di Vicenza, dovrà veder rinnovata la concessione per il polo di Bolzano, che insiste su un terreno pubblico. Per l’Italia, ad oggi, è emerso segnaletico e importante il tema degli approvvigionamenti critici, tanto che il golden power non è prospettato per condizionare una possibile scalata straniera a un’impresa nazionale ma per blindare l’esito di una gara d’appalto pubblica. Lo ha ben scritto l’avvocato Luca Picotti, esperto di golden power e di diritto dell’economia, su Formiche, sottolineando che [“l’esito dell’istruttoria Golden power, che va a confermare la strategicità dello stabilimento, conduce ad una più o meno esplicita strettoia: o il bando di gara viene disegnato in modo tale da porre requisiti idonei a fare ottenere la riconferma ad Acciaierie Valbruna, oppure una aggiudicazione diversa, con conseguente chiusura dello stabilimento, incontrerà il probabile veto governativo”}. [...]
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