Non è un segreto che le ultime vicende di politica internazionale, a cominciare dall’aggressione russa all’Ucraina, abbiano messo a nudo differenze di vedute tra i governi dei principali paesi dell’Unione Europea. Una fortunata eccezione è rappresentata dalla situazione del Kosovo, rispetto alla quale gli ultimi mesi hanno visto lo sviluppo di una strategia condivisa, coerente e di lungo periodo all’interno dell’Unione; è significativo che anche gli Stati Uniti, sempre molto influenti nel piccolo paese balcanico per il loro originario e incondizionato appoggio alla sua indipendenza, abbiano abbandonato i distinguo dell’epoca Trump per allinearsi alle iniziative europee.
L’esempio più recente viene dal rilancio del progetto di un’Associazione dei comuni kosovari a maggioranza serba, dislocati nel nord del paese. L’idea è tutt’altro che nuova: già dieci anni fa fu inclusa negli accordi di Bruxelles, che costituirono il primo tentativo di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo (2013). Il progetto fu però giudicato parzialmente incostituzionale dalla Corte Costituzionale kosovara nel 2015; soprattutto, esso seguì il destino dell’intero processo di dialogo, ostaggio del ritorno delle due parti a posizioni massimaliste fino alla recente escalation della “guerra delle targhe”, alle dimissioni in blocco di tutti i serbi dalle istituzioni kosovare, a scontri e barricate nei comuni a maggioranza serba, e al temporaneo dispiegamento di reparti militari serbi lungo il confine contestato. Anche grazie alla mediazione europea e atlantica, le tensioni si sono ridotte. Certamente hanno contribuito le recenti critiche riservate del Presidente serbo Vučić a Putin, rispetto al quale finora egli aveva mantenuto una posizione di subalternità; nonché il consolidamento del governo di Albin Kurti in Kosovo che, pur non rinunciando a una retorica nazionalista, rappresenta una sostanziale discontinuità rispetto alla generazione politica artefice dell’indipendenza e poi screditata da frequenti episodi di corruzione. [...]
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